Una confessione sull’amicizia.
“Che ti dicono i tuoi genitori?”
“Che devo andare a lavorare.”
“Non ti vedi con i compagni di scuola nel pomeriggio?”
“No. ”
Jo Marrazzo, in un lungo servizio giornalistico, intervistava gli scugnizzi napoletani, divisi tra piccoli furti e truffe ai danni di ingenui malcapitati, nella Napoli degli anni settanta.
Il contributo dato da Marrazzo alla conoscenza dell’Italia di quegli anni, fu ed è ancora preziosissimo, sebbene ne parli solo perché mi ha spinto a riflettere su un dato che riguarda la mia infanzia e che mai avevo visto rappresentato in un ambiente che non fosse quello familiare e del mio paese d’origine e cioè il concetto di amicizia in contesti diversi da quello della borghesia piccola e media.
Ovviamente l’amicizia è un elemento fondamentale nell’esistenza di tutti gli esseri umani di tutti i tempi e di tutte le fasce sociali; non è altrettanto ovvia la modalità con la quale, in contesti sociali diversi la si può guardare.
Una mamma borghese trovava naturale e forse anche alla moda, spingere i propri figli ad incontrare gli amichetti di scuola.
La madre di uno scugnizzo poteva invece ritenere che restare con gli amici fosse una perdita di tempo, se paragonato all’imperativo categorico di procurarsi il necessario per sopravvivere.
In questa diversa concezione dell’amicizia c’è la diversa concezione del significato di figlio.
Perché, per quanto possa non piacere, per operai, contadini e poveri di tutti i tempi, i figli erano e sono bocche da sfamare e da avviare al lavoro prestissimo, affinché contribuiscano al lavoro familiare, prima ancora che oggetti dell’amore materno e paterno.
I miei ricordi di figlia combaciano senz’altro di più con questa idea di famiglia che non con quella di nucleo familiare, culla esclusivamente di un amore che sembra non conoscere il bisogno.
Una certa idea di amicizia fu in effetti più il frutto di un uso imposto dalla borghesia, imposto proprio perché desiderato da essa,che un prodotto per le famiglie che provenivano da una cultura contadina ed operaia; per queste ultime l’amicizia era solo un passatempo, o meglio, una vera e propria perdita di tempo: la vita era fatta di doveri ed i passatempi erano pochi e concentrati solamente nei giorni deputati allo svago dal lavoro.
Il non seguire questa regola, che spartanamente scandiva le giornate di famiglie come la mia, produceva naturalmente un senso di colpa ed era proprio questo senso di colpa a rendere diverse le vite dei miei compagni di classe, ad esempio dalla mia, la vita dei bambini di città, alla moda e spensierati, da quella mia, tutta concentrata sull’ineludibile tragedia del bisogno.
La differenza di priorità esistenziale era frutto ovviamente dei tempi: il sessantotto non era lontano e la sua fiducia che tutto fosse possibile imbeveva e colorava il presente ed il disegno del futuro di tutti, ma soprattutto dei borghesi, perché in effetti l’emancipazione culturale e sessuale furono il risultato di una battaglia borghese, appunto quella del sessantotto, che una madre ed un padre come i miei, concentrati a sopravvivere in una provincia contadina dell’entroterra barese, non ebbero interesse alcuno a combattere.
Rosamaria Fumarola.